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L'ex capitano del Lecce Franco Lepore si è raccontato in una lunga intervista al podcast “Centrocampo”, dove ha parlato della sua carriera calciastica e ovviamente del suo periodo di militanza a Lecce. Queste le sue parole:

 

I primi calci al pallone

Fin da piccolissimo giocavo a calcio grazie a mio fratello: passavamo ore a fare passaggi insieme. Un giorno, quando avevo cinque anni, tornando da scuola, vidi con lui una locandina di una scuola calcio. C’era scritto che era riservata ai ragazzi dai sei ai dieci anni, ma io iniziai subito a insistere con mia madre perché mi iscrivesse.

Un giorno lei, senza dirmi nulla, andò a parlare con qualcuno. Io però avevo il sospetto che si stesse recando proprio alla scuola calcio e, visto che era vicino casa, decisi di seguirla di nascosto insieme a un mio amico. Durante il tragitto trovammo un pallone sgonfio e bruciato: lo raccogliemmo e andammo a giocare in un campetto lì vicino. È stato proprio in quel momento che vidi mia madre parlare con il presidente della scuola calcio. Mentre loro discutevano, io e il mio amico giocavamo. Anni dopo mia madre mi raccontò che il presidente, inizialmente titubante per via della mia età, cambiò subito idea vedendomi giocare e decise di iscrivermi.

Così, a cinque anni, iniziai a giocare e lo feci sempre con ragazzi più grandi di me. A dieci anni arrivò il provino con il Lecce, grazie a mister Franco Corallo. All’epoca il responsabile del settore giovanile era Pantaleo Corvino, e il provino andò bene. Per noi bambini, giocare nel Lecce era un sogno: per me quel campetto era come il Via del Mare. Già entrare nel settore giovanile era bellissimo.

A Lecce mi hanno formato moltissimo anche dal punto di vista tecnico: la società lavora benissimo con i giovani e Corvino è un direttore molto preparato. Erano gli anni in cui la Primavera del Lecce vinceva tutto. Io purtroppo mi fermai poco prima, agli Allievi Nazionali, perché venni scartato per la mia statura. Corvino, però, mi fece fare tutte le visite mediche: il dottore mi rassicurò dicendomi che non c’era nulla di preoccupante, semplicemente c’è chi cresce prima e chi dopo.

Per questo il Lecce mi mandò a Nardò, dove giocai nell’Under 18, e poi a Copertino, dove a 17 anni passai tra i grandi in Eccellenza. Quella fu la mia prima vera esperienza nel calcio dei grandi.

 

La prima esperienza al nord

L’anno successivo volevo provare un’esperienza al Nord, perché secondo me lì ci sono maggiori possibilità. Avevo due opzioni: il Foligno oppure il Castelfranco Emilia, dove c’era un preparatore originario di Lecce. Fu proprio grazie a lui che decisi di scegliere la squadra emiliana, anche se questo comportò un litigio con il Copertino, perché ero l’unico calciatore tra quelli portati dal mister a non essere svincolato. Alla fine riuscii a risolvere la situazione e, dopo una prova di due-tre giorni, mi presero.

Il contratto prevedeva 500 euro al mese, più vitto e alloggio: vivevo in un garage adattato a casa dal mister della Juniores, mentre per i pasti mangiavo proprio a casa sua. Lì, grazie al mister, trovai anche lavoro: lui era impiegato in una fabbrica che produceva materiali in plastica per bagni e, visto che durante il giorno non sapevo come impegnare il tempo, gli chiesi se potevo andare con lui. Mi assunsero subito e guadagnavo 840 euro al mese. Sommando i 500 euro della squadra arrivavo a circa 1.300 euro, una bella cifra per un ragazzo di 18 anni senza spese.

La mattina mi svegliavo ogni giorno alle cinque per andare a lavorare, ma riuscivo comunque a riposare nel pomeriggio prima di andare agli allenamenti.

 

L'esempio di sua madre

Io sono sempre stato molto attaccato alla mia famiglia. Ho perso mio padre quando avevo appena 10 anni e ho visto mia madre fare di tutto per crescere cinque figli in una casa popolare di appena 75 metri quadrati. Per me è un esempio di forza: anche adesso, che da tre anni lotta contro la leucemia, non ha mai mollato e continua a sorridere ogni giorno.

Ricordo benissimo il giorno in cui mio padre è morto. Eravamo andati al mare in Vespa con mio fratello e, al nostro ritorno, abbiamo visto tanta gente davanti a casa. Non capivamo cosa stesse succedendo. Salendo, abbiamo trovato tutti che piangevano. Ho chiesto a mia madre cosa fosse accaduto: inizialmente mi disse che papà aveva avuto un incidente ed era in ospedale, ma io avevo già capito la verità.

Sono corso in cameretta e ho stretto forte tra le braccia le scarpe da calcio che poco tempo prima mi aveva regalato, promettendogli che un giorno sarei arrivato a giocare in Serie A.

 

Il primo anno in B con il Lecce

Dopo l’esperienza positiva a Varese – dove sono arrivato grazie all’amicizia tra Petrachi e Sogliano – il Lecce mi riprese in prestito con diritto di riscatto. In caso di riscatto, sarebbe scattato automaticamente un contratto triennale. Rientravo nei piani della società, anche perché l’obiettivo non era quello di salire subito in Serie A.

In Serie B arrivò subito il mio esordio con il Lecce: anticipo della prima giornata, in casa contro l’Ancona. Entrai negli ultimi quindici minuti e, dopo appena sette minuti, segnai un gol. Il giorno prima, un mio amico era venuto in ritiro a portarmi una maglia con la scritta “Ultrà Lecce”.

Sono molto legato a quella curva, perché da bambino andavo sempre allo stadio in curva nord con la mia famiglia. Quel giorno, sentivo dentro di me che avrei segnato proprio sotto quella curva.

 

Il mancato riscatto con il Lecce

Quando ti stai giocando la promozione, il periodo di marzo è il più bello in assoluto. Io avrei dovuto disputare una partita da titolare, ma durante la rifinitura mi sono rotto il malleolo tibiale, saltando così tutto il finale di campionato. Siamo comunque saliti in Serie A e ne sono stato felicissimo, anche se mi è dispiaciuto non poter essere protagonista di quel traguardo.

Ho comunque apprezzato tantissimo la chiamata, in estate, di mister De Canio, che mi spiegò i motivi della mancata conferma: l’infortunio e la promozione, arrivata forse prima del previsto. In quella stagione, Giacomazzi fece un gesto che mi emozionò profondamente: quando alzò la coppa, me la consegnò e mi permise di festeggiare sotto la curva nord, insieme alla mia gente.

 

Il ricordo di quel Salernitana-Nocerina e il mancato trasferimento a Lecce

Dovevo tornare a Lecce già nell’anno in cui persero la finale playoff contro il Frosinone, ma in quella stagione giocavo alla Nocerina (dove, per la prima volta, venni schierato come terzino) e successero quei fatti tristemente noti nella partita contro la Salernitana. Dopo appena quindici minuti dall’inizio, fummo costretti a uscire dal campo: avevamo già effettuato tutte le sostituzioni e siamo rimasti in sei in campo.

Ricordo benissimo quella giornata. Prima della partita, alcuni tifosi ci minacciarono e arrivarono persino ad aggredire qualche compagno. Tanti ragazzi della Primavera, nel tragitto dall’albergo allo stadio, vomitarono in pullman per la tensione. Noi calciatori avremmo voluto sporgere denuncia, ma non fu possibile, anche per la paura di eventuali ripercussioni. In campo nessuno se la sentiva davvero di giocare: i vari infortuni che si susseguirono furono il frutto della pressione e dell’angoscia di quei giorni.

Alla fine, la beffa: ci squalificarono, come se fossimo stati noi a vendere la partita. Io presi otto mesi di squalifica e questo mi impedì di approdare a Lecce. Nonostante tutto, Antonio Tesoro mi diede la possibilità di allenarmi con la Berretti giallorossa. Lasciai la mia famiglia al Nord, dove tuttora vivo tra Brescia e Bergamo, per inseguire ancora una volta il mio sogno.

L’anno dopo Miccoli rimase a Lecce: parlai con lui e grazie al suo intervento firmai al minimo federale, senza pretendere nulla di più. Mi inserirono dei premi a rendimento, ma la cosa importante era una sola: tornare a giocare per la squadra della mia città. Ho lasciato tutto e sono ripartito ancora una volta dal Lecce.

 

Il rapporto con Miccoli

Con Miccoli siamo ancora come fratelli e lo ringrazierò sempre per tutto quello che ha fatto per me. Anche nel mio trasferimento al Monza c’è stato il suo zampino: lui si era già ritirato, ma parlò con mister Brocchi facendo il mio nome e, poco dopo, arrivò la chiamata del club brianzolo.

Da lui ho cercato di rubare qualcosa sia dal punto di vista umano sia da quello tecnico, soprattutto nei calci piazzati. A fine allenamento ci fermavamo sempre e io lo osservavo attentamente. Era un giocatore indescrivibile: calciava indifferentemente di destro e di sinistro come se fosse la cosa più naturale del mondo. Giustamente, pretendeva molto dagli altri sul piano tecnico, perché era davvero fortissimo.

Ricordo ancora un episodio durante un allenamento, quando stavamo provando le palle inattive. Dovevamo battere una punizione dai 16 metri, defilata sulla destra: serviva un mancino, ma sia io che lui eravamo destri. Fabrizio mi disse: “Guarda Franco, adesso vedi come faccio gol”. Si mise in posizione come se dovesse calciare di sinistro, ma invece tirò di esterno destro sul primo palo e segnò. Io, in quel momento, avrei voluto sprofondare.

Come persona, poi, si è sempre messo a disposizione sia dei compagni di squadra che di chi lavora dietro le quinte. Ancora oggi è così. Anche sotto questo aspetto ho cercato di prendere esempio da lui.

Gli anni di Lega Pro con il Lecce e il match contro la Paganese

Gli anni in Lega Pro sono stati durissimi. Un anno, nonostante avessimo una squadra fortissima, non siamo riusciti nemmeno a raggiungere i playoff. Eppure avevamo un gruppo fantastico, con il quale ancora oggi siamo in contatto.

Quella stagione era iniziata male: dopo poche giornate venne esonerato Rizzo e al suo posto arrivò Liverani. La prima partita con lui in panchina fu a Catanzaro: vincemmo 3-0 e segnai anche io. Da lì in poi infilammo 22 risultati utili consecutivi. Liverani ci caricò tantissimo e ci fece acquisire una consapevolezza nuova nei nostri mezzi. Era molto esigente dal punto di vista tecnico, ma ci trasmise la mentalità giusta per puntare alla Serie B.

Quell’anno riuscimmo a risalire grazie soprattutto all’unione di intenti e alla compattezza del gruppo. Ci sono stati anche momenti meno belli, ma siamo stati bravissimi a superarli. Ricordo bene la settimana prima della partita contro la Paganese, quella che poi sancì la matematica promozione: durante la partitella del giovedì, preso dalla foga, andai a recuperare un pallone di tacco che avrei potuto tranquillamente lasciar andare. In quell’azione mi stirai.

Pur di giocare, mi feci aspirare 10 cc di sangue dalla lesione e riuscii a entrare negli ultimi dieci minuti di quella gara. Il destino volle che la partita finisse con il pallone proprio sotto ai miei piedi. È stato un momento indimenticabile.

 

Il mancato rinnovo con i salentini e la chiamata del Monza

L’anno dopo ero in scadenza di contratto, ma non avevo chiesto nemmeno un euro in più per rinnovare. Mi era stato detto di aspettare e io avevo atteso. Poi, negli ultimi due giorni di mercato, è arrivata la chiamata del Monza.

Non è stato semplice pensare di lasciare Lecce, ma davanti a me si presentava l’occasione di andare in una società ambiziosa, con un progetto chiaro: vincere. Inoltre, per me c’era anche la possibilità di avvicinarmi alla mia famiglia. Alla fine ho colto al volo questa opportunità.

 

L'aneddoto sulla tragedia di Coccaglio

Siamo cresciuti insieme nel settore giovanile. Quando è successa la disgrazia, io ero a Coccaglio, a soli cinque minuti da casa mia. La domenica ci eravamo sentiti e quella mattina avevo pensato di andargli a fare una sorpresa: sapevano che sarei passato a trovarli, ma non sapevano quando.

Avevo anche preso un piccolo pensiero per il presidente, il magazziniere e tutte le persone che lavorano dietro le quinte. Poco prima di arrivare, chiamai proprio il magazziniere per avvisarlo che stavo arrivando, ma lui mi chiuse subito la chiamata dicendomi che era in contatto con l’ambulanza perché Graziano non si era sentito bene.

Quando sono arrivato, ho trovato già lì tutte le ambulanze. Sono rimasto con loro fino a quando non è arrivata la notizia più brutta: Graziano non c’era più.

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