DiFra si confida a La Repubblica e “chiama” anche lui un calciatore dell’Inter per il Lecce

Le sue parole in una lunga intervista al quotidiano romano
Sulle colonne dell’edizione odierna del quotidiano La Repubblica è presente un’intervista al neo tecnico del Lecce, Eusebio Di Francesco. Nel corso della lunga chiacchierata sono stati toccati diversi temi, molti dei quali legati soprattutto alla sfera privata dell’allenatore abruzzese. Queste le sue parole, dove, al termine dell’intervista – seguendo le orme di quanto fatto in precedenza da Sticchi Damiani a #nonsolomercato – consiglia il Salento e il Lecce a un calciatore dell’Inter.
Che fine hanno fatto i suoi famosi occhiali?
Mi sono operato. Li uso solo per guidare la sera, o quando leggo. Ultimamente, saggi sulla motivazione e sull’uso delle parole. L’ultimo si chiama Pensieri lenti e veloci, di Daniel Kahneman. Insegna a conoscere la nostra mente.
E lo psicologo nel suo staff?
Mi ha aiutato a superare le due retrocessioni in due anni all’ultima giornata, con Frosinone e Venezia. Botte su botte. Ho fatto un percorso con una società di comunicazione, per assorbire le sconfitte e trasmettere messaggi corretti ai giocatori.
Torna a Lecce dove fu esonerato nel 2011.
Il club allora era in autogestione, oggi è solido. Io ero alla prima esperienza in A. Sono cambiato e sto ancora crescendo.
Come?
Resto curioso, amplio le mie vedute. Mi definivano integralista, ma non mi sentivo così. I giovani parlano di gioco e di costruzione, io non facevo eccezione. Però il mio obiettivo è sempre stato il risultato, non l’estetica. Oggi cerco di mettere a loro agio i calciatori. Al centro non ci sono i moduli ma l’intensità. Non esistono più i giocatori che passeggiano. Il modello è il Psg: corrono tutti, senza primedonne.
Il Lecce le chiede la salvezza, l’Italia di far giocare Camarda
Vediamo se è pronto. Di sicuro ha una gran fame, anche troppa. Si dispera per ogni gol sbagliato. Ma l’errore è parte del processo di crescita.
E Pantaleo Corvino?
Prima di parlare di calcio, chiacchieriamo mezz’ora delle sue passioni. I quadri, le piante, soprattutto gli ulivi.

Pensa mai di andare all’estero?
Guardo serie tv per migliorare l’inglese, ma non è il momento. In Italia ho quattro nipoti.
Si sente ancora romanista?
Sono legato ai tifosi e ai compagni di allora, primo fra tutti Montella. Ma la squadra del cuore resta il Pescara. Per mio figlio Federico è diverso. Totti lo faceva sedere sugli armadietti.
Cosa farà da grande Totti?
Il dirigente. Per lui il massimo sarebbe la Roma. Ma prima forse gli farebbe bene provare altre strade. Io l’ho fatto: il team manager a Trigoria, poi per due anni ho gestito uno stabilimento balneare.
Il celebre trattorino con cui spianava la sabbia ai bagni Stella d’Oro a Pescara esiste ancora?
I nuovi gestori ne usano uno più comodo, su cui ci si può sedere. Sul telefono ho come sfondo l’immagine di mio nipote. Riccardo, che non c’è più, mentre mi aiutava a rastrellare. Ero maniacale. Sono della Vergine, sono pignolo.
In quella spiaggia va ancora?
Ho diritto vita natural durante a una palma in prima fila centrale. La numero otto.
Lei impone regole ai suoi calciatori sull’uso del telefono?
Sono passato dalla hall dell’albergo e nessuno mi ha guardato in faccia, erano tutti sullo schermo. A cena pretendo condivisione: cellulari in tasca e si chiacchiera.
I calciatori le sono grati?
Berardi a ogni gol dice ancora “me l’hai insegnato tu”. Acerbi mi ringrazia per una lezione: lo tolsi dal campo al 13’ del primo tempo in amichevole. Se lo meritava.
A 15 anni lei serviva ai tavoli nell’albergo di famiglia. È un’esperienza che hanno fatto anche i suoi figli?
Una mano l’hanno data, ma i ragazzi di oggi sono diversi, devi chiedere loro di togliersi il piatto da tavola. Io ero un ottimo sparecchiatore. Mio padre a ogni brutto voto mi faceva trovare pronta la divisa di cameriere. E quando cominciai a giocare mi disse: se vuoi fare il calciatore, vai lontano, perché se resti a Pescara io ti faccio lavorare. L’hotel c’è ancora ma i miei sono anziani, lo abbiamo venduto.
Si chiama Eusebio come l’asso portoghese: l’ha mai conosciuto?
Lo incontrai a Valencia, facemmo una foto insieme. Mio padre ci teneva, ma l’ho persa dalla memoria del telefono. Da allora, le foto le faccio stampare: della tecnologia mi fido poco. Con Mangone, mio compagno alla Roma, eravamo sulla sua Porsche: dimenticò di avere lasciato a casa il Telepass e sfondammo la sbarra al casello. Da allora, rallento un chilometro prima. C’è scritto 30? Vado a 25.
Cos’altro la spaventa?
La cattiveria, ce n’è troppa in giro. I ragazzi si accoltellano e la gente intorno filma. Visitai il Kosovo con Tommasi, dopo il conflitto. Ora da padre e da nonno, non accetto quel che sta succedendo ai bambini di Gaza.
Chi è il suo idolo?
Nelson Mandela. Ma invecchiando capisco che le basi me le hanno date i miei genitori. Mi hanno insegnato il rispetto per gli altri.
A centrocampo, chi è il Di Francesco di oggi?
Frattesi. Se è indeciso fra rimanere all’Inter o partire, la soluzione gliela do io: venga a giocare in Salento, che si sta bene.