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Umirati u lepoti”. Morire nella bellezza, tradotto letteralmente. Un detto dell’est rappresentativo della grande nazionale Jugoslava del passato, tanto bella quanto perdente, con quella sua storia fatta di rimpianti e rammarichi, di “quello che poteva essere e non è stato”. Un concetto, in parte, trasferibile al Lecce di Liverani, bello e incompiuto, arrembante ma sconfitto, grintoso ma fragile. Una squadra paradossale, che chiude il campionato con 85 gol subiti, una media di 2,23 a partita. Una compagine che subisce reti a una tale media, di solito, a marzo si ritrova già a programmare la B dell’anno seguente, e invece i giallorossi erano lì appesi ad un filo fino all’ultima giornata. Il paradosso è questo: la notizia non sta nell’essere retrocessi con 85 gol subiti, ma nell’essersi quasi salvati nonostante gli 85 gol subiti. Di questa stagione resterà sicuramente il rammarico per una salvezza che questa squadra, nonostante gravi lacune, poteva conquistare. È mancata la malizia in talune occasioni, l’esperienza che non si studia dai libri e non si accumula negli allenamenti, ma solo nelle partite e soprattutto nelle sconfitte. Ma ancor prima di tutto questo, resterà un modello di squadra a tratti irripetibile. Merito di Fabio Liverani, un tecnico che ha le sue colpe, come tutti quando avviene un fallimento, ma anche tanti meriti. Il merito di aver proposto di un’idea di gioco, di aver dato un’identità ben precisa alla sua formazione. Dogmatico ma innovativo, ha dimostrato che si può giocare un calcio fatto di fraseggi negli spazi stretti e giocate tecniche individuali anche se non si dispone della qualità di una big. Incompiuto ma a tratti spettacolare il suo Lecce. Un domani, quando si riguarderà a questa stagione, non la si analizzerà solo attraverso i freddi dati di una bruciante retrocessione, ma ci si ricorderà anche e soprattutto del suo spirito mai domo, della voglia di ripartire nonostante le sconfitte e delle imprese contro le grandi d’Italia, dei pareggi contro Inter, Juventus e Milan, delle vittorie contro la Lazio e contro il Napoli al San Paolo. A questo Lecce va dato il merito di aver lottato nonostante le difficoltà. Le ultime settimane, di questo campionato, sono state la rappresentazione perfetta di una squadra in simbiosi con la sua terra, il Salento, che come essa sa esaltarsi nelle difficoltà, trovando energie per fare (o almeno provare a fare) l’impensabile. Il Lecce dell’ultima settimana, del trittico finale contro Bologna, Udinese e Parma, era una squadra caracollante, che si trascinava per alimentare una flebile fiammella di speranza di permanenza in serie A. Ci sono le immagini, che in tal senso, parlando meglio di qualsiasi analisi tattica o statistica. C’è l’immagine di Gianluca Lapadula, che segna a Udine, riaccende la speranza, esce dal campo con una caviglia malconcia portato a spalle dai compagni e tre giorni dopo, contro il Parma, gioca novanta minuti, non si risparmia, andando al di là dei suoi limiti fisici e stramazzando sul terreno di gioco, quasi in lacrime a fine partita quando il verdetto diceva ormai “serie B”. C’è l’immagine di  Giulio Donati,  Antonin Barak, Riccardo Saponara, ultimi arrivati e ultimi a mollare, nonostante la loro avventura in giallorosso sia stata quasi di passaggio. C’è l’immagine di Marco Mancosu, che il 6 novembre del 2016 finiva Fondi-Lecce in Lega Pro giocando in porta, con la sua squadra in dieci, e compiendo l’intervento decisivo per salvare un 2-2 su un campo sfatto di provincia, e tre anni e mezzo e due promozioni dopo, chiude la stagione in serie A a 14 gol, e si siede al centro del Via del Mare deserto dopo Lecce-Parma, con le lacrime che gli rigano il viso, in quello stadio che gli ha dato tanto e a cui lui ha dato ancor di più. Dio benedica il Fùtbol e le storie come quella di Marco. Il finale di stagione del Lecce è stato come un tango di Astor Piazzolla, malinconico ma appagante, che nonostante la sconfitta ha reso orgogliosi i tifosi, e quando questo accade, al di là del risultato, significa che si è fatto centro. Dopo ogni fine, c’è sempre un nuovo inizio, d’altronde. La ripartenza ruoterà attorno alle certezze e alla rinnovata forza di una società di tifosi, ancor prima che soci, e all’entusiasmo incontenibile della piazza leccese. Il “nuovo” Lecce, di fatto, ha già mosso i primi passi, al fischio finale di Lecce-Parma, quando un nutrito gruppo di tifosi si è raccolto all’uscita dallo stadio per salutare con cori e applausi tutti i protagonisti che dal primo all’ultimo hanno provato a scrivere l’ultima pagina, la più bella, di un sogno chiamato serie A. E’ da quell’entusiasmo che il Lecce ripartirà, da quella voglia della gente che all’indomani di una bruciante sconfitta già non vede l’ora di celebrare la prossima impresa.
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