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Joan Gonzalez, ex centrocampista del Lecce, si è raccontato in una lunga lettera a Consapevolezze, nella quale ha parlato del suo addio al calcio a causa di un problema cardiaco. 

La lettera 

"Il mio cuore è diverso. Lo è da sempre. Ho imparato a conoscerlo già da bambino. Vedete, ha sempre avuto battiti un po’ strani, andavano a un ritmo irregolare e tutto loro. 

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L’anno scorso, però, mi ha giocato un brutto scherzo. Era luglio. Luglio 2024. Ero pronto per affrontare una nuova stagione con il Lecce, avevo coronato il sogno di giocare in Serie A, tutto andava bene. Era il giorno delle visite mediche di rito. Appuntamenti di routine per un calciatore. Ero tranquillo, abituato a quei momenti. E, invece, in quel giorno la mia vita è cambiata per sempre.

Avevo appena finito i test sotto sforzo. Il dottore si è avvicinato. “I tuoi battiti cardiaci hanno una morfologia strana”. Nell’extrasistole c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che non andava. All’inizio non ero preoccupato. Non pensavo potesse essere qualcosa di così grave. Mai avrei pensato di dover dire addio al calcio. Si trattava semplicemente di qualche controllo in più.

È andata diversamente. È stato l’inizio di un lungo anno. Un anno in cui ogni giorno dentro di me è cresciuta sempre di più la consapevolezza che l’addio al calcio non era più una sola fantasia, ma una dura realtà. Mesi di incertezza e insicurezza, in cui non sono stato bene vedendo quella che era stata la mia vita essere stravolta così all’improvviso. Un periodo concluso lo scorso agosto con l’annuncio ufficiale: la mia carriera era finita. Non avevo scelta. Le cicatrici del mio cuore avevano deciso per me. È dura raccontare tutto questo, ma è giusto e importante farlo. Questa è la mia storia, un battito (irregolare) alla volta. Ho capito solo qualche giorno che la situazione, forse, non era così tranquilla come immaginavo. Tutto è iniziato dopo una risonanza magnetica. Non si capiva se avessi un’nfiammazione o una cicatrice. Ma una cosa certa c’era: “Joan devi fermarti, non è sicuro farti giocare”. Ricordo lo sguardo dell’allenatore e del dottore. La situazione era seria. Avevo due possibilità per i controlli dei successivi mesi: andare a Padova o a Barcellona. Ho scelto la seconda per poter stare vicino alla mia famiglia. È stato fondamentale per poter affrontare un momento così difficile. Ero costretto a convivere con l’incertezza e con la possibilità di dover dire addio al calcio. Poi sono iniziate le visite. Ogni volta ci arrivavo con un po’ di paura. Anche se la più dura è stata la prima.

Se chiudo gli occhi rivedo quegli istanti. La stanza così piccola, la mia famiglia dietro di me, il dottore davanti: “Dobbiamo capire se il problema è un’infiammazione dovuta a un virus o al Covid oppure è una cicatrice”. Dopo quelle parole qualcosa in me è cambiato. Come se avessi per la prima volta compreso la complessità della mia condizione. Sono scoppiato a piangere. Lo stesso hanno fatto i miei genitori e la mia ragazza. Percepire la preoccupazione nei loro occhi mi faceva male. Insieme al non giocare, è stato l’aspetto più pesante con cui convivere. “Joan, prima viene la tua salute”. Me lo ripetevano spesso. Temevano per la mia vita. All’inizio, invece, il mio pensiero era legato al ritorno in campo. Mi mancava il calcio.
 


Calcio, arrivederci!

Sono stati mesi terribili, ma in parte penso che mi abbiano anche aiutato. Ogni giorno che passava mi avvicinava alla certezza dell’addio. Lo sentivo. Era qualcosa che stava assumendo forma e concretezza. E questo mi faceva male. Tanto male. All’improvviso qualcuno mi stava togliendo ciò che mi aveva accompagnato per una vita. E io non avevo alcuna responsabilità. Però, allo stesso tempo, non stare bene prima, mi ha aiutato a vivere meglio il momento dell’annuncio ufficiale. Dentro di me avevo già interiorizzato e maturato almeno in parte quello scenario. Ho valutato la possibilità di farmi seguire da uno psicologo, ma ho preferito affrontare da solo ciò che stavo vivendo. Cercavo di non pensare al calcio. Stavo con la mia famiglia. E in quel periodo ho anche deciso di prendere un cane, Dobby. Era un mio desiderio da sempre. Mi ha accompagnato in infinite camminate, l’unica possibilità di fare attività fisica che avevo.

Poi è arrivato agosto. Dopo l’ultima visita, il dottore mi aveva confermato che non avrei potuto avere l’idoneità per tornare a giocare. Ma vi dico la verità, anche se me l’avessero data, mi sarei comunque fermato. Il rischio era troppo alto. Anche se in parte mi ero preparato, fare i conti con la realtà è stata dura. Sentendo le parole del dottore sono scoppiato a piangere insieme ai miei familiari. A differenza della prima volta, però, non era un pianto di paura, ma liberatorio. Un modo per lasciare andare mesi di paure e preoccupazioni. Fare quel passo mi è costato tanto. Stavo per dire addio al pallone. Una pagina si stava chiudendo per sempre. Non sarei più stato un calciatore. Mai più. Calcio, ciao.

Devo dire grazie al Lecce, mi ha salvato la vita. Non so cosa sarebbe potuto succedere se fossi andato avanti. E mi porto dentro tanti ricordi positivi. Dalla città al calore della gente, passando per l’esordio in A contro l’Inter e i momenti condivisi con i compagni. E poi Graziano Fiorita, il nostro fisioterapista. La sua scomparsa è stata uno shock. Avevamo un grande rapporto. Devo ringraziare anche il mondo del calcio. Mi sono arrivati tanti messaggi, anche da calciatori con cui non avevo mai parlato. Nelle prime settimane non me la sono sentita di leggerli. Mi faceva troppo male. Era come ricordarmi ogni volta ciò che mi era successo. Ora è arrivato il tempo di rispondere a tutti e ringraziarli per la loro vicinanza.

È stato un bel viaggio. Il pallone c’è sempre stato. Pensate, i miei genitori mi ricordano spesso di come rincorressi la palla quando ancora gattonavo. A 3 anni ho iniziato a giocare nel club della mia città. Poi ho avuto la fortuna di giocare nel “mio” Barcellona. Dopo un provino fallito due anni prima, mi avevano chiamato. Che emozione. Anche se non è stato così semplice e perfetto. In club così importanti la competizione è alta, anche tra compagni. Gestirla, soprattutto quando si è piccoli, non è facile. Dopo due stagioni sono andato al Cornellà, per tornare cinque anni dopo a Barcellona. Arrivare poi al Lecce mi ha permesso di coronare il sogno di giocare in Serie A. È stato bello.

Ora sto studiando. Frequento la facoltà di Amministrazione e Direzione d’Impresa a Barcellona. Il calcio mi manca, ci penso spesso. Nelle prime settimane faticavo di più, ora riesco a guardare un po’ di partite o mi piace anche andare a vedere i miei amici giocare. Non ho ancora fatto partitelle con loro, non mi sento abbastanza sicuro. Ma so che succederà e questo mi dà un po’ di sollievo.
E sono un ragazzo diverso, con qualche consapevolezza in più. Vedete, quando le cose vanno bene a volte si corre il rischio di darle per scontate, pensare che non finiranno mai, senza godersele e apprezzarle davvero. Ma la vita è imprevedibile. Tutto può cambiare. A me è successo, so cosa significa. Per me inizia una nuova pagina della mia vita. Ma caro calcio, il mio non è un addio, ma un arrivederci. Il nostro viaggio insieme non è finito. Ci vediamo presto". 

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