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“In caso di promozione bisognerebbe mantenere costi bassi e investire sui giovani. Se andremo in A? Onestamente questa società ha dei debiti che andrebbero risanati, non ci lasciano molto spazio per un programma ambizioso. Dobbiamo esclusivamente basarci sui giovani e sui costi bassi. Una città di 100mila abitanti con 20mila persone allo stadio è un miracolo. Quando siamo andati in A abbiamo visto che non era possibile avere un programma troppo ambizioso e lo abbiamo ripagato in modo penoso. Se non entra qualcuno con la spalla molto più grossa di noi, il programma sarà limitato”.

21 aprile 2022. Mentre il Lecce di Baroni si apprestava a preparare la sfida contro il Pisa, vero crocevia della stagione dei giallorossi, Renè De Picciotto, all’epoca azionista di maggioranza del club salentino, rilasciava queste dichiarazioni durante un’intervista ai microfoni di Telerama, palesando tutte le sue perplessità per il futuro.

Oltre a quanto riportato sopra, c’è un passaggio che lascia comprendere meglio di tutti la differenza tra l’imprenditore italo-svizzero e gli altri soci, in primis il presidente Saverio Sticchi Damiani, che ha poi rilevato le sue quote, permettendo alla società di rimanere integra, senza patire l’assenza di De Picciotto: 

“Onestamente non voglio investire ulteriormente nel Salento. Essere tifoso è una cosa, imprenditore un’altra. La maglia non mi sembra una ragione sufficiente per investire avanti, lo dico in modo ragionevole”.

De Picciotto è un imprenditore legato agli investimenti e qualche anno fa si trattava di farli nel Salento, ma non al Lecce, non a quei colori, non alla maglia. È stato proprio questo aspetto a fare tutta la differenza del mondo.

Attenzione, i soci che sono rimasti al timone del Lecce non sono degli sprovveduti e neanche degli incoscienti, pronti a scialacquare il loro patrimonio personale e le loro risorse economiche per questo club. Ad esempio, il presidente Sticchi Damiani, pur di non lasciare le quote del banchiere svizzero in mani sconosciute, con un grosso sacrificio le ha acquistate tutte dando una risposta netta sia a Rene de Picciotto che a tutti i tifosi, dimostrando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, quanto ci tenga e quanto creda nel progetto. 

Semplicemente gli azionisti hanno visto più lontano, oltre la punta del loro naso, non si sono fermati all’apparenza ed hanno creduto alla bontà di un progetto costellato da enormi difficoltà, hanno perseverato, spinti dalla voglia di realizzare qualcosa di importante per la squadra della loro città che rappresenta Lecce, il Salento e tutto questo territorio in giro per il mondo.

De Picciotto ha dimostrato di non credere in una bellissima visione, di non avere il coraggio di osare anche quando le cose sembravano potessero andare nel verso giusto, di guardare soltanto il presente, le perdite di quel momento (il COVID ha inciso parecchio), senza credere che avrebbero potuto trasformarsi in utili; con pazienza, sacrificio, competenze e, perché no, un pizzico di fortuna. 

Lecce, come sempre nella sua storia, ha incassato l’addio dell’imprenditore senza fiatare, reagendo con la solita indifferenza che contraddistingue il capoluogo salentino, che più che indifferenza è orgoglio, vanità, capacità di sopravvivere a tutto. 

Sono arrivati nuovi soci, non è escluso che in futuro non possano chiedere di acquisire quote in percentuale più alta. Il progetto Lecce piace, il modello Lecce è sostenibile e porta risultati anche in Serie A. Lo dimostrano i fatti, lo dicono classifica e monte ingaggi del club salentino. 

Chissà se Renè adesso non si sia pentito della scelta compiuta appena un anno fa. Forse avrebbe dovuto aspettare o forse è stato meglio così. In fondo, c’è stato un Lecce prima di De Picciotto e ci sarà sempre un Lecce dopo di lui. È bastato aspettare per capire chi avesse ragione. 

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