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Il direttore Pantaleo Corvino ha parlato ai microfoni di La Stampa.

Cosa ne pensa della crisi di talenti italiani, con riferimento agli attaccanti, come detto da Mancini?
“Il calcio è fatto di cicli. Abbiamo avuto momenti migliori, concordo ma non mi meraviglio”.

Come mai?
“La spiegazione è semplice: in Italia mancano le strutture. È cosi da sempre, ma prima sopperiva la strada ed il calcio era lo sport di tutti i bambini: oggi ci sono tante discipline e non si improvvisano più partitelle nel verde o sull'asfalto”.

Lei non punta il dito su allenamenti lacunosi e tatticismi esasperati?
“Se anche fossero problemi, sarebbero secondari. Quello principale è nitido. Io posso avere il miglior pilota del mondo, ma senza un'auto come fa a dimostrarlo? La verità è che tutti i presidenti vedono il settore giovanile come un costo e non come un investimento. E la Federazione non ha mai imposto di dotarsi di impianti adeguai e destinare una percentuale del fatturato ai vivai”.

Buoni esempi non mancano…
“Ma appartengono quasi tutti al calcio d'élite. Facile. Guardate la base: la Serie D, la C, anche la provincia. A volte si allenano tre squadre sullo stesso campo…”

Il Lecce Primavera è pieno di stranieri…
“Tutte le società hanno l'obiettivo di formare calciatori in ottica prima squadra. La nazionalità non è determinante, ma poiché non posso competere economicamente con i grandi club, baratto mercati alternativi, come est e nord Europa. Ho scovato promesse in Islanda, Norvegia, Danimarca, Irlanda, Romania, Slovacchia, Slovenia…”

Quindi non siamo davanti ad uno specchio della povertà di talenti made in Italy?
“Solo in parte. Sui pochi che sbocciano, nel contesto poco fertile che ho descritto, arrivi sempre dopo i grandi club: meglio, arrivi anche prima ma devi arrenderti comunque alle offerte superiori, a una disparità finanziaria incolmabile. La Juve ha investito quasi 3 milioni su Mancini del Vicenza: io non potrei farlo”.

Non resta che attraversare i confini…
“È l'unico modo per costruire il futuro resistendo alla concorrenza impari dei grandi club: quel poco che c'è in giro lo rastrellano loro attraverso progetti ambiziosi e risorse superiori”.

C'è chi sostiene che i giovani italiani siano meno propensi al sacrificio…
“Non è una verità assoluta. Se c'è meno fame, non è solo ne calcio. Certo, molte cose sono cambiate. Una volta il pallone era un sogno difeso con forza, si giocava addirittura di nascosto, i genitori privilegiavano lo studio: oggi sono i primi a incoraggiare e sostenere i figli”.

È cambiato l'appeal del calcio italiano?
“Una volta la Serie A era la terra promessa: i giovani calciatori desideravano il nostro campionato ricco di grandi firme. Oggi i top player sono protagonisti altrove e le scelte orientate da fattori diversi, gli ingaggi possono oscurare tradizioni e ambizioni. È capitato che il calcio russo sia stato preferito a quello italiano”.

L'Italia davvero non ha una punta di ruolo?
“L'abbondanza e la qualità dei ruoli dipende dai periodi. A volte nascono più punte, a volte più difensori. Resta il problema di fondo: si è persa quella grande palestra che era la strada e non abbiamo strutture idonee”.

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